Difetti genetici e alterazioni immunologiche alla base di casi gravi di Covid-19
Lo studio di un gruppo di ricercatori italo-americani, tra qui quelli del San Matteo di Pavia.
Ricercatori scoprono cause genetiche e immunologiche di casi gravi di COVID-19: una collaborazione italo-americana raccontata dai colleghi di Prima Pavia.
Casi gravi di Covid-19
Un consorzio internazionale di ricercatori al National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), National Institutes of Health (Bethesda, USA), Rockefeller University (New York) e in tre ospedali italiani (Spedali Civili di Brescia, Ospedale San Gerardo di Monza e Policlinico San Matteo di Pavia) ha scoperto perché alcuni soggetti con COVID-19 sviluppano una forma particolarmente grave di malattia. I risultati contribuiscono anche a spiegare perché i soggetti di sesso maschile contraggano forme gravi di malattia più spesso di quelli di sesso femminile.
Difetti genetici e alterazioni immunologiche
I risultati dello studio, pubblicati su due lavori apparsi oggi sulla prestigiosa rivista Science, dimostrano che difetti genetici e alterazioni immunologiche che compromettono la produzione di interferoni e la risposta cellulare a queste molecole sono alla base di forme molto gravi di COVID-19.
Più del 10% dei pazienti con forme molto gravi di COVID-19 ha risposte immunitarie anomale, con produzione di anticorpi che neutralizzano gli interferoni di tipo I, bloccandone l’attività anti-virale nei confronti del virus SARS-CoV-2, responsabile della malattia. Un altro 3,5%, o più, dei pazienti ha alterazioni genetiche che impediscono la produzione di interferoni di tipo I o la risposta cellulare a tali molecole. Di conseguenza, in entrambi i casi i pazienti mancano di risposte immunitarie efficaci contro il virus, che sono di norma assicurate dagli interferoni di tipo I, un gruppo di 17 proteine essenziali per proteggere l’organismo dal virus.
I difetti genetici o l’autoimmunità contro gli interferoni contribuiscono, quindi, in modo importante a causare forme gravi, potenzialmente fatali, di COVID-19.
Lo studio
Gli studi sono il risultato di un lavoro collaborativo che ha coinvolto il Dott. Luigi Daniele Notarangelo e la Dottoressa Helen Su presso il NIAID di Bethesda (diretto dal Dott. Anthony Fauci) e il Prof. Jean-Laurent Casanova (capo del St.Giles Laboratory of Human Genetics of Infectious Diseases presso la Rockefeller University a New York).
Tale gruppo di ricercatori ha instaurato un rapporto di collaborazione con alcuni ospedali italiani presso cui sono stati ricoverati pazienti affetti da COVID-19. In particolare, gruppi di clinici e ricercatori degli Spedali Civili di Brescia (coordinati dal Direttore Sanitario, Camillo Rossi e dalla dottoressa Luisa Imberti), dell’Ospedale San Gerardo di Monza (coordinati dal professore Andrea Biondi) e del Policlinico San Matteo di Pavia (coordinati professore Gianluigi Marseglia) hanno messo a disposizione campioni biologici di pazienti con COVID-19 ricoverati presso tali strutture.
In particolare, il San Matteo ha partecipato a questo progetto contribuendo alla ricerca in ambito pediatrico, sotto la guida del professor Marseglia, direttore della clinica pediatrica.
Il virus SARS-CoV-2 può causare infezioni di gravità molto diversa, da forme asintomatiche fino a quadri estremamente gravi tali da richiedere il ricovero in terapia intensiva e causare anche il decesso del paziente.
I ricercatori del NIAID, della Rockefeller University e i colleghi italiani hanno studiato migliaia di pazienti con COVID-19 con vari gradi di gravità della malattia.
Gli studi effettuati hanno dimostrato che su circa 660 pazienti con forma molto grave di malattia, un numero rilevante presentava alterazioni a carico di 13 geni già noti per essere essenziali nella risposta al virus influenzale e ad altri virus. Il 3,5% dei pazienti ha presentato difetti importanti nella produzione di interferoni di tipo I o nella risposta cellulare a tali molecole. Inoltre, più del 10% dei pazienti con forma molto grave di COVID-19 aveva autoanticorpi che bloccavano completamente l’attività degli interferoni di tipo I; il 95% di questi pazienti erano di sesso maschile.
Le implicazioni terapeutiche
Queste osservazioni possono anche avere implicazioni terapeutiche: nei soggetti con difetti genetici di produzione degli interferoni di tipo I è possibile pensare alla somministrazione di tali molecole, almeno nelle fasi iniziali di malattia (quando l’azione degli interferoni è particolarmente importante). Nei pazienti con autoanticorpi anti-interferone è, invece, possibile pensare a terapie che rimuovano gli autoanticorpi dal sangue (plasmaferesi) o alla somministrazione di farmaci che eliminino le cellule produttrici degli autoanticorpi.
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