Giornate Fai di Primavera 2022, i gioielli da scoprire in provincia di Lodi
In programma visite a contributo libero in oltre 128 luoghi inaccessibili o poco conosciuti in 57 città.
Sabato 26 e domenica 27 marzo tornano le Giornate FAI di Primavera, il più importante evento di piazza dedicato al patrimonio culturale e paesaggistico del nostro Paese. Oltre 128 luoghi solitamente inaccessibili o poco conosciuti in 57 città saranno visitabili a contributo libero, nel pieno rispetto delle norme di sicurezza sanitaria, grazie ai volontari delle Delegazioni, Gruppi FAI e Gruppi FAI Giovani attivi in Lombardia.
Giornate Fai di Primavera 2022
Le Giornate FAI quest’anno compiono “trenta primavere”: dal 1993 a oggi, 14.090 luoghi di storia, arte e natura aperti in tutta Italia, visitati da oltre 11.600.000 di cittadini, grazie a 145.500 volontari e 330.000 studenti “Apprendisti Ciceroni”. Un traguardo esaltante, che tuttavia non potrà essere solo una festa. Nel pieno di una guerra che segna tragicamente la storia europea, non è il momento di festeggiare, né di invitare gli italiani a distrarsi nel puro godimento delle meraviglie del nostro Paese, ma piuttosto a concentrarsi sul significato e sul ruolo del patrimonio culturale che riflette la nostra identità, testimonia la nostra storia e rinsalda i valori del vivere civile. In cos’altro si incarna, del resto, l’identità di un popolo se non nella sua storia, nella cultura e nella tradizione? I monumenti, il paesaggio, le opere d’arte raccontano chi siamo a chi non ci conosce e alle generazioni presenti e future: il patrimonio culturale è come il patrimonio genetico di un popolo, che conserva a perenne memoria un codice di esperienze e valori condivisi su cui si fonda la nostra umanità.
Mai come quest’anno, allora, le Giornate FAI mostrano il loro più autentico spirito civico ed educativo, che è nella missione del FAI: visitare i luoghi eccezionalmente aperti dai volontari del FAI sarà l’occasione per conoscere la nostra storia e riflettere su quanto può insegnarci per affrontare il presente e il futuro, perché ciò che siamo e che abbiamo non sia dato per scontato, ma sia compreso e apprezzato come esito di lunghi e talvolta drammatici trascorsi che ci accomunano come italiani, europei, e con l’umanità tutta. Proteggere, conservare e valorizzare il patrimonio culturale, aprendolo al pubblico e invitando tutti gli italiani a conoscerlo e frequentarlo: questa è la missione del FAI, che proprio in questi tempi bui, in queste Giornate FAI, trova un senso ancor più profondo e una funzione ancor più necessaria e urgente.
Il FAI, come istituzione della Repubblica, ha scelto di esprimere in maniera esplicita la vicinanza e la solidarietà con il popolo ucraino esponendo i colori della sua bandiera in tutta la comunicazione e nei Beni, ma la Fondazione vuole dare un contributo concreto e perciò si impegna oggi formalmente a finanziare il recupero di un’opera d’arte del patrimonio culturale ucraino che sarà individuato non appena cesserà la guerra e sarà avviata la ricostruzione del Paese.
Chi deciderà di prendere parte alle Giornate FAI potrà offrire un contributo per sostenere la Fondazione. Ai partecipanti verrà suggerito un contributo non obbligatorio a partire da 3 euro e la donazione online su www.giornatefai.it consentirà, a chi lo volesse, di prenotare la propria visita; per molti luoghi, soprattutto nelle grandi città, la prenotazione online è consigliata per garantirsi l’accesso alla visita. Chi lo vorrà, potrà sostenere ulteriormente il FAI con contributi di importo maggiore oppure con l’iscrizione annuale, sottoscrivibile online o in piazza in occasione dell’evento (box in fondo per dettagli).
Un weekend per riconnetterci alla storia e alla cultura dell’Italia, che permetterà ai visitatori di sentirsi parte dei territori in cui vivono e di cui spesso non conoscono appieno la bellezza e il valore. Verranno aperti ville e palazzi storici, aree archeologiche, chiese di grande valore architettonico o storico-artistico, esempi di archeologia industriale, castelli, biblioteche, collezioni d’arte e musei. Non mancheranno itinerari nei borghi alla scoperta di angoli meno noti del paesaggio italiano, dove si conservano tesori nascosti e si tramandano antiche tradizioni, e visite didattiche in parchi urbani, orti botanici, giardini storici e cortili, che nascono dall’impegno messo in campo dalla Fondazione per la diffusione di una più ampia “cultura della natura”.
I gioielli da scoprire in provincia di Lodi
Orio Litta, Villa Litta Carini
La Villa Litta Carini si trova al centro del piccolo borgo di Orio Litta, immersa nella campagna lodigiana. Dal bellissimo giardino interno la vista spazia fino all'argine del Po.
La costruzione del corpo centrale dell'edificio, che presenta una disposizione dei corpi ad U, è fatta risalire alla seconda metà del XVII secolo per opera del conte Antonio Cavazzi della Somaglia. Il Palazzo, commissionato al noto architetto Giovanni Ruggeri, doveva essere la manifestazione della ricchezza e dell'importanza acquisite dalla famiglia Cavazzi in quel periodo. Alla sua morte, nel 1688, il conte lasciò la Villa in eredità al pronipote Paolo Dati, che assunse il titolo di conte Antonio della Somaglia. Paolo Dati attuò l'ampliamento del palazzo di Orio, trasformandolo in una reggia maestosa destinata a luogo di villeggiatura e incontro di grandi personaggi della letteratura e cultura italiana settecentesca.I lavori di ampliamento terminarono nel 1749 dopo la morte del conte, avvenuta nel 1739, durante la proprietà del figlio Già Batta Antonio Somaglia, avuto dalla seconda moglie, la contessa Camilla Visconti. La data 1749 è impressa sulla statua di ferro definita "Dio del tempo" o "Angelo della morte" posta sulla sommità della parte centrale del palazzo. La statua raffigura un personaggio alato impugnante una falce e una campana che permettevano il battere delle ore, essendo collegate al meccanismo dell'orologio sottostante. Nel XVIII secolo la Villa era costituita dal corpo centrale ampliato che racchiudeva la corte d'onore, da una corte rustica, da un cortile triangolare e dal cortile degli scudieri, tuttora esistenti. Il complesso era autosufficiente grazie all'apporto di decine di servitori e di famiglie a servizio.
Nella struttura vi erano cucine, lavanderie, granai, pollaio, deposito del carbone, legnaia, scuderie, cavallerizza, fienile, cantine, agrumarie, magazzini per la frutta, orti, vigna, macelleria e ghiacciaia. Senza dubbio, però, le parti di maggiore fascino erano quelle riservate agli appartamenti del proprietario e degli ospiti che comprendevano il salone delle feste, il teatro, la sala biliardo, l'oratorio, lo scalone d'onore; ambienti affrescati e riccamente arredati. Da non dimenticare i giardini che si estendevano nel retro della Villa, con mosaici e ninfei sino a raggiungere un attracco per le barche sul Po. Il Palazzo restò proprietà della famiglia Dati Somaglia fino al 1824 quando, per l'impossibilità di mantenerlo a causa dei numerosi debiti, fu venduto all'inglese Sir Richard Holt. Quest'ultimo insediò nella Villa e nel paese alcune filande, trasformando la cavallerizza in fabbrica. L'inglese accumulò molti debiti e alla sua morte, nel 1847, la proprietà fu passata al suo maggiore creditore, il conte Giulio Litta. La famiglia Litta Visconti Arese portò nuovamente il palazzo agli onori della vita mondana. Dai racconti degli abitanti del paese, che aggiunse al nome Orio anche quello dei Litta, si apprende che la villa fu frequentata da re Umberto I, Giacomo Puccini e altri illustri personaggi del tempo. Purtroppo, ancora una volta, i gravi debiti contratti portarono alla vendita del Palazzo che aveva nel frattempo assunto il nome di Villa Litta. Nel 1897 il figlio del conte Giulio Litta, il duca Pompeo Litta Visconti Arese, vendette la proprietà a Guido Corti, che già da qualche tempo amministrava questi beni. I problemi economici delle varie famiglie di cui abbiamo parlato portarono a un graduale spoglio e a un uso non sempre consono della Villa. Basti pensare che il penultimo proprietario, Federico Colombo, la adibì all'allevamento d'animali di vario genere e a magazzino per il grano.
Ospedaletto Lodigiano, Abbazia dei Gerolomini
Ospedaletto – oggi piccolo paese del Lodigiano - ospitò nel Medioevo un “hospitale” ( il primo documento citato è del 1152) all'origine legato a Senna Lodigiana e destinato ad accogliere pellegrini e viandanti che percorrevano la vicina strada Cremona - Pavia e la strada Romea per recarsi a Roma. Furono i conti milanesi Balbi, già patrocinatori della fondazione dell'ospedale di Senna sui loro possedimenti lodigiani, a voler trasformare l'ospitale medioevale in monastero gestito da un ordine religioso. Nel 1443 fu stipulato il seguente accordo: i Balbi, patroni in perpetuo del monastero, cedettero l'ospedale ai monaci gerolomini , che ne divennero padroni assoluti, a precise condizioni: che i monaci vi abitassero in numero di 12 - 13 con il priore, provvedendo alle opere di miglioria degli edifici, ed ospitando o mantenendo 20 nobili decaduti con i loro servitori, o sostenendoli se residenti fuori dal monastero.
Intorno alla metà del XV secolo, per volere di papa Callisto III, si avviò la costruzione ex novo di un nuovo monastero dei Gerolomini. I lavori furono presumibilmente avviati intorno al 1460-1470 e compiuti nel corso del Cinquecento; dell'antica chiesa non resta più traccia. Il monastero, crebbe di importanza, godendo di immunità e privilegi concessi da Bianca Maria Visconti, moglie di Francesco Sforza (ad esempio il libero utilizzo delle acque del canale Muzza). La fondazione dell'attuale abbazia con l'obbligo della parrocchialità, risale al 1516, La facciata del tipo a capanna è serrata ai lati da due spessi contrafforti e sovrastata da un coronamento in cotto ad archetti pensili su cui spiccano tre esili pinnacoli (tardogotico). La parte inferiore fu modificata nel Settecento e dotata di un portico su tre archi sostenente un'ampia balconata. Al centro si apre un'elegante serliana. La Canonica si addossa al fianco Sud, dove si erge il campanile di fine Cinquecento, sormontato dal tiburio ottagonale alleggerito da finestre timpanate e concluso da un'alta cuspide. All'interno la navata unica si sviluppa in lunghezza e il presbiterio in profondità, concluso dal coro rettangolare, come nella chiese parrocchiale di Villanova sul Sillaro (prima metà del Quattrocento). Lo spazio ampio è affiancato da tre cappelle per lato, comunicanti mediante brevi corridoi di passaggio, e coperto da una volta a botte. Nel corso del Cinquecento cospicue rendite, elargizioni, lasciti di privati e privilegi consentirono l'ampliamento della struttura con la costruzione dell'attuale presbiterio (Cappella Maior) e del nuovo coro rettangolare. Il momento di maggior splendore si manifestò nell'ultimo lustro del Cinquecento con il rinnovamento della decorazione interna, quando Filippo III volle unire alla Congregazione di Spagna i conventi gerolomini di Lombardia e il Priore di Ospedaletto divenne il Priore Generale dell'ordine. La chiesa, nuovamente decorata a modello del San Sigismondo di Cremona, fu solennemente consacrata nel 1599 (26 luglio) dal vescovo cremonese Cesare Speciano (LAPIDE commemorativa sopra la porta della Sacrestia) e intitolata a S. Pietro apostolo, come nella prima fondazione, con il benestare del vescovo di Lodi Ludovico Taverna. Nel Settecento si effettuarono nuovi interventi architettonici: la costruzione della Cappella del Santo Rosario (prima a sinistra) e della “Camerazza” ovvero il lungo corridoio che corre posteriormente all all 2^ e 3^ cappella di sinistra (oggi adibito a ripostiglio). Alla facciata fu aggiunto un pronao a tre fornici, sovrastato da una balconata con balaustra. A seguito delle soppressioni napoleoniche di molti ordini monastici, tra cui quello Gerolomino, nel 1798 il Monastero di Ospedaletto, ormai abbandonato dagli ultimi frati, fu venduto ad un cittadino francese, (Giambattista Chevilly). La chiesa fu esclusa dalla vendita, in quanto unico luogo di culto in paese, affidata alla Diocesi di Lodi e gestita da sacerdoti scelti dal Vescovo e da lui direttamente dipendenti. Oggi sopravvivono oltre alla chiesa alcune pertinenze dell'antico complesso monastico: parte del Chiostro, il Noviziato, la Casa dell'abate (proprietà privata); esso si erge su un alto zoccolo che domina la campagna aperta, che un tempo costituiva la vasta ortaglia o giardino e i possedimenti del complesso monastico
La chiesa si mostra all'osservatore come un vero e proprio scrigno ricolmo di opere d'arte, infatti, dall'epoca della sua fondazione fino al XVIII secolo, fu sottoposta a molteplici interventi di carattere decorativo e pittorico, compiuti in fasi differenti. Nonostante le ricerche d'archivio non sembra più esistente alcun tipo di registro che annoti i pagamenti a favore di questo o quell'altro artista, spese sostenute dai monaci o elemosine dei donatori per l'abbellimento della chiesa. Nonostante l'edificio si trovasse in territorio lodigiano, la maggior parte degli artisti proveniva dal contado cremonese come confermano le firme apposte sui dipinti. Il modello fu la chiesa di san Sigismondo a Cremona anch'essa dell'ordine gerolomino. Si possono individuare tre fasi relative alla decorazione della chiesa La prima fase nel Cinquecento. All'inizio del ‘500 risalgono i lavori per l'altare con l'opera del Giampetrino , mentre, nell'ultimo decennio, quando la chiesa è in via di ristrutturazione e viene ampliata per far fronte alle esigenze della comunità dei fedeli si decorano: le cappelle, ad opera di artisti prima attivi in san Sigismondo, e gli affreschi con i Dottori della Chiesa sulle pareti che separano le cappelle. Nel 1590 vengono inoltre realizzati i 64 stalli lignei del coro. La seconda fase: nella prima metà del'600 vengono realizzati gli affreschi del presbiterio La terza fase all'inizio del Settecento. Il cremonese Giuseppe Natali decora la volte a botte ( solo in parte leggibile per la tecnica impiegata) , la sacrestia.e la cappella del Rosario (prima cappella sin.); la volta del coro viene invece dipinta da Mattia Bortoloni . Sempre nel ‘700 viene affrescata la parete del presbiterio e la controfacciata, ora in parte coperta dall'organo.